Non è un segreto che molti di noi percepiscano i social come luoghi di sfogo, quasi fossero uno spazio che gentilmente lo Stato ci mette a disposizione per scaricare lo stress della giornata.
Anche chi ci bazzica per lavoro (qui non intendo social media manager, content creator o influencer, ma nello specifico i clienti di questi ultimi), spesso li vede come strumenti al servizio del proprio brand, dove tutto è volto a migliorare il commercio, l’immagine o la reputazione, con regole che di volta in volta cambiano a seconda della convenienza.
Ma i social non sono quello che vorremmo. Soprattutto negli ultimi anni (il Covid ha giocato un ruolo importante in questo processo), il concetto che si apra una sorta di videogioco in cui decidiamo noi l’andamento della campagna e ci arrabbiamo se qualcosa va storto ha preso sempre più piede. La verità è che i social hanno, sotto una parvenza di anarchia (in)controllata, una ricca scelta di strumenti che possono limitare in buona parte i comportamenti più caotici ed estremi.
Chi utilizza questi strumenti è alla ricerca di una netiquette perduta, perché - consapevolmente o meno - percepisce che i limiti di ciò che è lecito in una società civile sono spesso prevaricati da persone che non sottostanno a una moderazione costante, cosa di cui i social, soprattutto il gruppo Meta, sono sempre stati estremamente manchevoli.
Qualche esempio? La possibilità di bloccare profili o nascondere pagine; decidere chi può vedere, commentare o condividere i post; controllare i tag e le menzioni; impostare un livello di interazione più o meno aperto nei gruppi, e così via.
In generale, l'impressione è che i social vengano concepiti da privati e aziende come terreni comuni sopra i quali scambiarsi “cose”, qualunque tipo di cose, dal business agli insulti, passando da uno all’altro senza cognizione di causa. Dovremmo invece pensare ai social come a un insieme di tante piccole proprietà confinanti tra loro (i profili privati), intervallati ogni tanto da spazi di condivisione (pagine e gruppi).
Dentro questi ultimi tutti hanno il diritto di dire la loro, sempre rispettando le regole essenziali di civiltà e convivenza. Non si è mai visto nessuno entrare in posta lanciando il pacco da spedire contro il vetro dell’operatore (non senza conseguenze, comunque), e la stessa cosa ci si aspetta che accada sui social. Se questo non succede, ecco che entrano in gioco gli strumenti di cui sopra, anche grazie alla costante moderazione degli amministratori di gruppi e pagine.
I profili personali, invece, sono come il giardino di una casa privata: tutti ci possono “buttare un occhio”, ma sta al proprietario decidere in che misura far interagire coloro che si trovano al di là della siepe. E anche quando il cancello è aperto, bisogna sempre ricordarsi che si tratta in primo luogo di un’area in cui siamo ospiti, non padroni.
Non ha davvero senso prendersela perché siamo stati bloccati o qualcuno non accetta la nostra richiesta di amicizia. Pur avendo tutte le buone ragioni del caso, è un po’ come se un vicino di casa non ci salutasse per strada: magari non è piacevole, ma è perfettamente nella sua libertà farlo e non sta nuocendo a nessuno.
La stessa cosa va tenuta a mente da tutti coloro che si avvalgono della figura del social media manager, che è un professionista con alcuni strumenti in mano e non un santone con la bacchetta magica. Sulle piattaforme social ci sono alcune barriere inevitabili anche per chi le conosce bene e non ha alcun potere di impedire che qualcuno lasci una recensione negativa o chieda delle informazioni poco pertinenti. Ha invece il sacrosanto diritto di usare quegli strumenti che i social mettono a disposizione per tutelarsi, come il filtro per le volgarità, la limitazione dei commenti e, se necessario, il blocco dei profili.
Attenzione, però, a non esagerare. Spesso e volentieri questi strumenti vengono presi come una scorciatoia per risolvere situazioni del tutto innocue e che vengono male interpretate da chi non ha dimestichezza con le piattaforme social. Scrivere un pensiero negativo sul proprio profilo personale, ad esempio, non corrisponde a un insulto volgare sotto al post di una pagina, così come la discussione su un gruppo a sé stante non implica che la pagina in questione debba intervenire direttamente.
Cerchiamo sempre di rispettare i (pochi) spazi democratici che ancora ci consentono queste piattaforme e di tenere a mente la distinzione tra pubblico e privato, post e storia, gruppo e pagina, commento e recensione. Anche tra social e social, perché ognuno di essi ha modi e tempi diversi per far rispettare le proprie regole, e non necessariamente ciò che vale per uno è applicabile anche ad un altro.
Detto questo, non diamo mai per scontato che il caos che ci circonda sia la realtà dei fatti. I social non sono ciò che vorremmo né ciò che vorrebbero gli altri, ed è nostro dovere imparare a utilizzare al meglio gli strumenti, anche e soprattutto digitali, che ci permettono di esercitare i nostri diritti.